Educazione bilingue: confusione o opportunità

Educazione bilingue: confusione o opportunità
A cura della Dott.ssa Agata Gallo

 

Esistono tanti modi di vivere il bilinguismo, almeno quanti sono i bilingue nel mondo: quando si parla di lingua si parla di comunicare con gli altri e di parlare di sé: potersi esprimere in due lingue o più può significare dover scegliere la lingua adatta a ciascun interlocutore, a ciascun luogo, a ciascuna tradizione, e questo può essere fonte di difficoltà.

Ma può essere anche fonte di ricchezza, perché la padronanza di più lingue amplia le frontiere e il mondo si allarga di conseguenza.

Rudolf Steiner, il famoso pedagogista, diceva “Ogni lingua dice il mondo a modo suo. Ciascuno edifica mondi e anti-mondi a modo suo. Il poliglotta è un uomo più libero.”

L’educazione bilingue si ritrova anche in epoche antiche. Nel mondo romano, per esempio, le classi più facoltose educavano i bambini al latino (come L1) e al greco (come L2), inizialmente insegnandoli a scriverle e a pronunciarle e dopo avvicinandoli alle relative letterature. Una delle prime riflessioni sull’educazione al bilinguismo e al relativo periodo sensibile di apprendimento, risale al IV secolo d. C. e si ritrova nell’opera di Sant’Agostino Confessioni (1,8; 14). Egli riferisce che preferiva utilizzare il latino nei suoi scritti perché aveva appreso il greco più tardi rispetto ai suoi coetanei, ragion per cui, a suo avviso, aveva maggiore difficoltà ad esprimersi in tale lingua.

La critica in maniera sistematica all’educazione bilingue avvenne, però, solo a partire dall’inizio del secolo scorso: all’inizio del novecento la maggior parte degli studiosi era contraria mentre successivamente vennero dimostrate tutte le inconsistenze di quelle obiezioni sollevate contro l’educazione bilingue precoce.

Nel 1908, un insegnante tedesco di nome F. Jahn, sostenne con sicurezza l’impossibilità di acquisire perfettamente due lingue. Inoltre, descrisse i bambini bilingui come bambini confusi mentalmente, frutto del fatto che ogni lingua tende ad offrire una differente visione del mondo non solo secondo Jahn. Anche altri insegnanti tedeschi suoi contemporanei sostennero che il bilinguismo porterebbe a dei conflitti interiori se non a disturbi del comportamento e psicosi infantili [1].

Otto Jespersen (1860-1943), professore di lingua inglese alla Copenhagen University e fondatore della International Phonetic Association [2], espresse duramente il suo parere sfavorevole all’educazione bilingue. A suo parere, lo sforzo messo in atto dal cervello per l’utilizzo delle due lingue determinerebbe una diminuzione delle risorse a disposizione per l’apprendimento delle altre materie scolastiche. In più, affermava di come la competenza, sia in L1 che in L2, non possa essere profonda ma solo superficiale (1922). La sua teoria dipendeva da un approccio strettamente grammaticale, ragion per cui, al termine conoscenza intendeva non sono la conoscenza implicita di una lingua ovvero la capacità di comprendere e parlare ma anche una conoscenza più esplicita e grammaticale.

Nel 1949, Jespersen pubblicò un’opera monumentale riguardante la grammatica inglese in sette volumi, il Modern English Grammar On Historical Principles, ripercorrendo la storia grammaticale della lingua inglese dal quindicesimo secolo fino ai giorni suoi contemporanei.

La teoria di Jespersen ad oggi risulta ingenua. Studi recenti (Robertson, 1999) dimostrano come lo sviluppo cerebrale del bambino richieda una pluralità di stimoli, mentre una limitata stimolazione linguistica, cognitiva o affettiva produca effetti dannosi allo sviluppo psicologico.

A causa di diversi errori metodologici e, come spesso accade nella storia della scienza, quando la ricerca sembra confermare proprio quel costrutto che si voleva trovare, tra il 1930 e il 1960 furono condotte delle ricerche che riuscirono a dimostrare gli effetti negativi di un insegnamento bilingue. Le ricerche condotte comparavano il livello intellettivo e cognitivo dei bambini bilingui con quello dei bambini monolingui. Il risultato emerso definì che l’educazione bilingue rallentava lo sviluppo cognitivo (Saer, 1923; Darcy, 1946; Jones e Steward, 1951).

La critica riferita a questi studi fu fatta mediante un’analisi sistematica degli strumenti valutativi e della metodologia: Grosjean (1982) riporta che nella valutazione dello sviluppo cognitivo e intellettivo, alcune variabili fondamentali non erano state bilanciate [3]; Cummins (1984) invece evidenzia l’errore metodologico particolarmente grave per cui i test di intelligenza effettuati venivano somministrati nella lingua dei ricercatori: questo modo di procedere determina mediamente una sottostima del QIV (Quoziente Intellettivo Verbale) di circa 5-10 punti rispetto alla valutazione effettuata utilizzando la L1 del bambino.

Il primo importante contributo che le neuroscienze hanno fornito all’insegnamento delle lingue straniere si deve a Wilder Graves Penfield [4], un neurochirurgo canadese con ben diciassette lauree ad honorem che, per motivi clinici e familiari (aveva infatti tre figli perfettamente plurilingue in francese, inglese e tedesco), si ritrovò a riflettere sull’importante questione della educazione plurilingue nei bambini. Dello stesso periodo storico di Jespersen, Penfield invece si schierò apertamente a favore dell’educazione precoce bilingue. Al tempo, a Montreal in Canada, la maggior parte della popolazione parlava francese, mentre la classe più agiata e borghese era di madre lingua inglese, ragion per cui quest’ultimi offrivano un’educazione bilingue ai proprio figli per potersi meglio integrare nella realtà economica e contrattuale della città. L’ostacolo da superare per favorire questo processo era quello di dover escludere la convinzione generale sui danni causati dall’insegnamento e dall’esposizione precoce a due lingue che circolava al tempo.

Tra i primi studi di Montreal, volti ad analizzare i possibili danni o i possibili vantaggi, ricordiamo Peal e Lambert nel 1962: favorevoli al bilinguismo [5], misurarono lo sviluppo intellettivo verbale e non verbale su un gruppo di bambini monolingue (francese) e su un altro gruppo di bambini bilingui (inglese-francese) di dieci anni.

In entrambi i punteggi ottenuti, quoziente verbale e non verbale, i bilingui risultavano essere mediamente più intelligenti. Risultato di grande scalpore che rovesciò i termini di riferimento dell’epoca, tanto che Barik e Swain (1976) vollero ripetere lo studio qualche anno più tardi, bilanciando meglio alcuni fattori critici quali per esempio sesso, età e condizione socioeconomica. Questi nuovi risultati non evidenziarono differenze significative nello sviluppo intellettivo dei bambini monolingui rispetto a quelli bilingui.

MacLaughlin nel 1978 afferma “I bambini bilingui a parità di altre condizioni, non sono quindi né meno intelligenti né tanto meno più intelligenti dei bambini monolingui”.

Nel panorama scientifico italiano degli anni settanta, a sostenere che non c’erano queste differenze di sviluppo intellettivo, c’erano Francescato (1973) e Titone (1972), i quali teorizzavano che soltanto i bambini che hanno utilizzato le due lingue in contesti comunicativi prima dei dieci anni riescono ad esprimersi senza accento straniero e con una normale fluenza in entrambe le lingue. Essi ritenevano ingiustificata l’obiezione che le persone bilingui non imparerebbero bene né l’una né l’altra lingua. Sia Francescato che Titone hanno riportato numerosi esempi di bambini bilingui che all’inizio del loro apprendimento riportavano talune differenze nella conoscenza delle due lingue: tuttavia, con il passare degli anni, queste differenze finivano per diventare irrilevanti a fronte dell’indubbio vantaggio di conoscere e adoperare con sicurezza e facilità più di una lingua.

Anche in tempi successivi, Lambert e collaboratori (1993) hanno continuato a studiare l’argomento. Con una ricerca effettuata su bambini di madrelingua inglese che hanno frequentato una scuola dell’infanzia in francese, definita quindi come un’immersione totale precoce, hanno mostrato che alla fine della scuola elementare i bambini possedevano una conoscenza totale non solo della L1 (inglese) ma anche della L2 (francese). Inoltre questi bambini bilingui possedevano lo stesso livello di conoscenza dei bambini monolingui nelle altre materie scolastiche per esempio, matematica, storia, geografia, scienze, eccetera.

La funzione delle scienze e il lavoro di ricerca dei numerosi studiosi, come sempre, hanno permesso di smascherare definitivamente i pregiudizi negativi, questa volta contrari all’educazione bilingue precoce dei bambini.



  1. Descrivono il fenomeno storico Lebrun e Paradis, 1984.
  2. L’International Phonetic Association (IPA) è un’organizzazione che promuove studi scientifici di fonetica e delle relative applicazioni. Tutt’ora attiva, ha da poco pubblicato la quarantunesima rivista Journal of the International Phonetic Association. Il sito internet è http://journals.cambridge.org/action/displayJournal?jid=IPA
  3. Quali ad esempio: l’età e il sesso dei bambini studiati; la loro situazione socioeconomica (i bilingui, infatti provenivano maggiormente da famiglie di immigrati con disagio economico mentre i bambini monolingue erano di famiglia borghese benestante); la situazione sociolinguistica ed emotiva, tenuto conto che molti bambini appartenenti a minoranze linguistiche erano costretti ad imparare la nuova lingua con sentimenti di ostilità.
  4. (1981-1976)
  5. Lambert veva anche sposato una francese ed educato al bilinguismo i suoi figli.

Potrebbero interessarti anche...

2 risposte

  1. Sugel ha detto:

    Il numero di immigrati nel Bel Paese aumenta, e lentamente anche il numero di matrimoni misti, una tendenza che è comune a molti paesi del mondo occidentale. I bambini nati in famiglie in cui si parla una lingua differente da quella del paese in cui vivono, o i cui genitori hanno lingue diverse tra di loro, devono preoccuparsi di risolvere un puzzle del linguaggio più complesso e articolato rispetto ai loro coetanei monolingua. Io mi trovo ad affrontare questo problema personalmente, in quanto siamo una famiglia interamente italiana emigrata in Svezia. Per noi il bilinguismo non è una scelta, ma una necessità. E così il Vikingo sta imparando contemporaneamente italiano e svedese. Lui le chiama la lingua di casa e quella dell’asilo. Non vi nascondo che più ci informiamo sull’argomento più siamo felici di poter dare a nostro figlio questa opportunità. Per noi ad ogni parola normalmente corrisponde un’immagine nel nostro cervello. Nel cervello di un bambino bilingue ci sono almeno due parole per ogni oggetto, situazione o azione. Ma è ancora più complesso di così. Imparare due lingue vuol dire far proprie due culture, perchè il linguaggio non può essere svincolato dal bagaglio culturale che si porta dietro. Chi si occupa di traduzioni, magari di testi letterari o poetici, sa bene che la stessa identica frase in due lingue diverse, può dar luogo a significati ed evocare emozioni o sensazioni molto distanti tra loro. Questo è tanto vero che molti bilingue spesso non riescono a tradurre una frase, in quanto in quella frase si racchiude un carico culturale che appartiene a due sfere differenti, che a volte è molto difficile mettere in relazione tra loro. Basti pensare al “tea” che per un inglese racchiude tutta una cultura e una tradizione inconfondibili, e che i giapponesi portano ad un livello di perfezione con un rito rigorosissimo, il “chakai”, mentre per la maggior parte degli italiani il tè è una insipida bevanda calda.

  2. silver price ha detto:

    Non basta. Si parla di bilinguismo solo nel caso in cui la seconda lingua venga acquisita dalla nascita? Il momento di acquisizione fornisce un’altra importante classificazione: viene definito bilingue simultaneo colui che è in contatto continuativamente e contemporaneamente con due lingue diverse. Il bilinguismo consecutivo presuppone che la prima lingua (cioè quella parlata prima cronologicamente) sia già stata acquisita per lo meno nelle sue strutture basilari prima di iniziare con la seconda lingua. McLaughlin considera simultanei tutti coloro che hanno iniziato ad avere contatti con l’altra lingua prima dei 3 anni. Il bilinguismo simultaneo in altre parole avrà due prime lingue, anche se una delle due è sempre dominante rispetto all’altra, dovuto al fatto che il contatto con le due lingue non è mai costante né paritario.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*