Il braccio della morte e la riscoperta dell’anima

Antonio_Rinaldi“Goodbye Warden”: il braccio della morte e la riscoperta dell’anima
A cura del Dr. Antonio Rinaldi

Nella camera dalle pareti turchesi, un microfono posto a pochi centimetri sopra il lettino, ascolta e registra per sempre gli ultimi pensieri, negli ultimi istanti di vita del condannato nel braccio della morte.

Quelle ultime parole vengono riascoltate, trascritte e pubblicate sul sito ufficiale del “Texas Department of Criminal Justice“, per divenire archivio storico di un passaggio visibile esclusivamente alle pochissime persone a cui è dato il permesso di assistere all’esecuzione.

Un’esecuzione che, vuoi per la morbosa inclinazione dell’animo umano ad esser spettatori di un qualcosa di macabro, vuoi per il forte sentimento giustizialista di porre rimedio ad una ferita, infliggendo una proporzionata ed esemplare punizione, viene presentata alla popolazione come un vero e proprio “show”, dalla precisa scaletta.

Leggendo e documentandosi sulle storie di vita dei prigionieri, dei loro delitti più o meno efferati, della loro permanenza di anni in una cella della grandezza di una macchina utilitaria, per 23 ore al giorno, scopriamo che ció che davvero stride con quello scuro e freddo sistema di tortura quotidiana, sono proprio quelle ultime parole.

Ad esser indirizzate a quel microfono, nella maggior parte dei casi, non sono le grida rabbiose e disperate di una persona che sta per esser uccisa, ma voci, portatrici di una incredibile serenità interiore, spesso sagge e dispensatrici di consigli e preghiere per parenti e conoscenti.

Amore, famiglia, grazie e scusa” sono le parole che riecheggiano con maggior frequenza nei “last statements“, ovvero nelle trascrizioni degli ultimi pensieri.

I condannati a morte mostrano preoccupazione per i propri cari e per i familiari delle vittime; nel chieder loro scusa li invitano a liberarsi dal peso dell’odio e del rancore, affinché possano riprendere finalmente a vivere.

Gli espliciti riferimenti a Dio e ad una dimensione di spiritualità, sono accompagnati da un senso di reale riflessione di accettazione di un passaggio, testimoniato dagli stessi cappellani che accompagnano i condannati negli ultimi momenti.
Molti detenuti del “death row” rinominano la loro prigione “life row”, perché là dentro nella maggior parte dei casi, passano più di un terzo della loro vita; tra quelle mura il detenuto ripercorre la propria vita, i propri errori, i propri dolori, i propri sogni, attendendo la morte, che, come diceva Epicuro, non possiamo temere perché presente solo in nostra assenza.

Nel death row ogni giorno è scandito dalla medesima routine, non esiste spazio per sorprese o eventi inaspettati, le poche visite, così come le telefonate di un parente o un amico, debbono esser prenotate, vagliate e accettate dalla amministrazione del carcere i giorni precedenti. Per un detenuto del death row, la possibilità di avere una comunicazione telefonica si riducono al minimo anche per il fatto che le telefonate hanno una tariffa molto elevata e il costo è naturalmente a carico del destinatario, che spesso rifiuta. Nei casi in cui il destinatario accettasse la prenotazione della chiamata da parte del detenuto (richiesta dall’amministrazione del carcere giorni prima), ma non fosse raggiungibile al momento della telefonata, la possibilità salta e, senza ulteriori tentativi, viene rimandata alla settimana successiva.

All’interno del death row non esistono attività ricreative in condivisione tra prigionieri; sono solo due al massimo le ore al giorno per 5 giorni su 7 in cui i detenuti possono passare del tempo fuori dalla loro cella ed aver minimi contatti con altri detenuti.

Ogni giornata scorre identica sino al fatidico giorno, dove qualsiasi cosa è accompagnata dall’aggettivo ultimo “last”, l’ultima notte, l’ultima doccia, l’ultimo pasto, ed infine appunto, le ultime parole.

Molti dei condannati vengono da situazioni familiari e sociali davvero critiche, dove il passaggio da vittime a carnefici diviene così invisibile e istantaneo, che quel loro vissuto di persone sofferenti, nel riguardare la loro vita, non sembrerà mai esistito.223734466-4a8fc123-945a-4e4e-ba1a-5be29497dc68
Come in una reazione chimica gli agenti di un composto sono conosciuti solo a chi conduce l’esperimento, così il passato di queste persone, tanto determinante la loro crescita, in moltissimi casi la struttura della loro personalità e sicuramente e definitamente, la loro vita, non viene neanche menzionato, a meno che non sia collegato ad ulteriori crimini, e quindi conferma di un loro profilo criminale o di “mostro”.

Con il passare degli anni però, queste zone d’ombra, inabissate nel buio di ogni condannato, iniziano a farsi presenti alle loro coscienze in parallelo al consolidarsi di una loro sempre più marcata “strategia autistica” di chiusura al mondo.

Giornalisti e psicologici infatti, andati in visita al “death row”, riferiscono che a causa dell’estrema condizione di isolamento nella quale i prigionieri sono costretti a vivere, nella maggior parte dei casi, iniziano a parlare da soli, mostrandosi chiusi verso qualsiasi stimolo esterno e in difficoltà a rivolgersi all’altro.

La difficoltà più grande che riportano i detenuti del braccio della morte è il far passar il tempo, senza impazzire per gli intensi e continui rumori, per le urla, per il caldo o il freddo, per il cattivo odore di fogna, che invade tutti gli ambienti.

Passare 23 ore al giorno in una cella di circa 18 metri quadrati, ovvero larga circa un posto macchina, senza finestre, con una porta di metallo senza sbarre, significa non poter veder oltre le proprie mura, non sentir passar aria se non al momento in cui viene aperto lo sportellino per far scivolare il vassoio del pasto; i detenuti vivono una dimensione che li vede in un continuo dialogo con loro stessi, con le proprie paure, con le proprie angosce, ma anche con i propri ricordi e le proprie speranze.

All’interno della cella, laddove il WC si trova a distanza di un braccio dal cuscino, dove lo sguardo del detenuto puó percorrere ben poca distanza prima di incontrare un muro, oggetti come un foglio, una penna, un libro, possono divenire la salvezza, canali attraverso cui riflettere su che cosa fosse la vita prima e dopo il processo, prima e dopo la condanna al death row, una “voce” attraverso cui raccontare, piangere, urlare il proprio sentire.

Il totale isolamento dei detenuti, in condizioni di vita al limite della sopportazione umana, per la mancanza di riscaldamento, di aria condizionata, di igiene, li vede tagliati fuori dalle dinamiche sociali della vita di tutti i giorni, da impegni, da ruoli e dagli status sociali; una simile astrazione dalla realtà, può portarli a vivere una condizione veramente rara per ogni essere umano, lo “stare con il proprio sentire” nel significato più profondo dell’espressione.

In psicoterapia, così come nelle pratiche meditative, il fulcro del cambiamento dell’individuo e del suo essere, parte dal suo imparare a “stare”, con se stessi, con le cose, con i dolori e con le gioie, con le vittorie e con le sconfitte, con la fortuna così come con la cattiva sorte.
Attraverso un processo di osservazione e auto-osservazione avviene la metamorfosi, la rinascita.

Esser detenuti nel death row significa esser condannati a morire, del resto come ogni bambino venuto al mondo. Ognuno di noi in effetti vive con la certezza che arriverà un giorno in cui passerà la sua ultima notte, farà la sua ultima doccia, consumerà il suo ultimo pasto, pronuncerà le sue ultime parole…la differenza è che a noi, fuori dal death row, non ci è dato saper quando.

Questo aspetto, tanto insignificante di fronte al concetto di “ultimo giorno di vita“, diviene invece probabilmente fondamentale nel percorso personale all’interno del braccio della morte e di accettazione del destino.

Il detenuto nel braccio della morte sembra iniziare a “funzionare” come un soggetto con la sindrome autistica, nella gestione emotiva dell’angoscia e delle iperstimolazioni sensoriali che contraddistinguono l’ambiente circostante.

L’aspetto routinario diviene importante se non fondamentale per la gestione dello stato ansioso, così come quell’ “egocentrismo” come chiusura all’altro, salvezza di un sentire emotivo troppo profondo da riuscire a scavalcare i solchi dell’animo personale per divenire condivisione.

L’autismo spesso viene demonizzato nella letteratura scientifica, come disturbo deficitario, associato a grave ritardo cognitivo, in realtà sappiamo ormai bene quanto possa esser di grande valore il potenziale spesso inesplorato di un soggetto caratterizzato da un simile funzionamento.

Parlare da soli, ripetendosi a mo’ di eco (ecolalia) parole, frasi o suoni in maniera bizzarra e ritmica serve, come ogni “stereotipia“, a tranquillizzarsi e a dar un senso di ordine in una generale confusione.

Guardando i documentari e leggendo le interviste dei giornalisti, i libri autobiografici di alcuni detenuti o le lettere scritte di loro pugno e pubblicate sulla rete, è difficile per chi, come me, ama conoscere l’animo umano in tutte le sue sfaccettature psicologiche, non notare che all’interno del death row avviene una trasformazione.

Ripercorriamo per punti la descrizione sopra descritta:

A) i carnefici sono nella quasi totalità dei casi originariamente vittime; quei “bambini” o quelle “bambine”, abusati, deprivati e feriti per sempre non sono stati mai ascoltati ma anzi nascosti al mondo, prima di tutto alla coscienza stessa di quei bambini e bambine che cresciuti hanno iniziato ad “odiare” e a “delinquere” per reazione.

B) nel death row, in condizione di totale isolamento e solitudine angosciosa i detenuti si trovano a vivere una realtà lontana dalle dinamiche della vita, nelle quali loro stessi per sopravvivere psicologicamente ai loro traumi, si identificavano come “cattivi”, come “delinquenti”. In prigione con il passare degli anni, quell’etichetta diviene inutile e per la prima volta nel silenzio appare chiaro il pianto del bambino ferito che è in loro…

C) il costante stare con le proprie emozioni profonde senza doversi più schermare per necessità di convivenza sociale, probabilmente rende il processo di auto-osservazione estremamente veloce e profondo e da lì la metamorfosi.

Tra quelle mura entrano persone per aver compiuto atroci reati… da quelle mura escono le loro anime, prime prigioniere, in corpi che mai hanno dato loro voce.

Ciao Guardia” (Goodbye Warden), così il prigioniero saluta il mondo rivolgendosi a chi rimane di fronte a lui nei suoi ultimi istanti, prima di poter liberare per sempre quel bambino ferito.

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Una risposta

  1. Alfredo ha detto:

    Chi è nel braccio della morte parla di ultimo pasto e via dicendo ma anche il malato terminale a cui stanno staccando la spina o che i familiari portano a casa poiché non vi è più niente da fare vive la stessa angoscia non avendo però commesso alcun reato e non trovando una valida spiegazione del perché deve morire. Il condannato a morte muore per mano altrui vi è dunque qualcuno che ne causa la morte ma il malato a chi la da’?

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