Scienza e riduttivismo

Scienza e riduttivismo
A cura del Dr. Claudio Cecchi

Ancora al giorno d’oggi, ahimè, assistiamo a ricerche e pratiche cliniche di stampo estremamente positivista. L’illusione di poter osservare e studiare un fenomeno da cui ricavare dei dati considerabili addirittura scientifici in virtù delle pratiche di laboratorio, domina il panorama delle scuole e degli approcci di ricerca di oggi, come di ieri. Tale scuola di pensiero, purtroppo, non riesce ad uscire dall’illusione statistica del possibile controllo delle variabili intervenienti all’interno della ricerca stessa, nonché dalla possibilità di neutralizzare tutti gli eventuali errori.

Nel 2010, così come dalla fine dell’800′, continuiamo a credere che il sapere scientifico derivi dalla possibilità di osservare e studiare le risposte di un fenomeno in relazione alle stimolazioni presenti o meno in ambiente.

La ricerca così strutturata risente, secondo parte significativa dei ricercatori, di errori e di variabili intervenienti non controllabili o comunque difficilmente neutralizzabili. Se c’è una cosa che più delle altre risulta essere sotto gli occhi di tutti e che accomuna più o meno tutti i ricercatori, è che nessuna osservazione può esularsi dal suo osservatore. In altre parole, il fenomeno osservato non può risultare ininfluente da colui che effettua la rilevazione stessa. Ognuno di noi influenza ed è influenzato dalla realtà secondo un processo d’interazione che non può esser controllato statisticamente. Non solo. Spesso, gran parte dei dati sono riferibili al processo stesso d’interazione più che alla variabilità o al tipo di reazione del fenomeno. L’idea di poter osservare in maniera neutrale un oggetto da cui ricavare dei dati, arrogandosi il diritto di fornire “sapere scientifico” è pura utopia.

Inoltre, allargando il campo della mia riflessione, vorrei sottolineare anche quanto la pratica terapeutica risenta di tale impostazione. I fenomeni studiati in laboratorio possono portare risultati concreti anche al di fuori di esso, avvalendosi quindi della stessa replicabilità, indipendentemente dalla situazione? Qual’è il virtuosismo scientifico di cui vantarsi se tali osservazioni, viziate dall’osservatore, vivono di contesti perlopiù sperimentali? Quanto gran parte della pratica terapeutica odierna è viziata dalle cosiddette teorie forti, nate dall’osservazione artificiosa di laboratorio e riportate pari pari come guida alle manovre terapeutiche di certi approcci?

Le stesse domande e le stesse riflessioni, fortunatamente, se le era già poste Kurt Lewin nella prima metà del XX secolo. Grazie a questo studioso è stato possibile cominciare a pensare che per studiare un fenomeno scientificamente non potevamo pretendere di conoscerlo a priori, quindi semplicemente osservandolo per poi cambiarlo, ma occorreva introdurvi un cambiamento per poterne studiare l’effettivo funzionamento. Da un processo di conoscere per cambiare, si cominciò a pensare di poter cambiare per conoscere. Un passaggio da una logica ipotetico-deduttiva ad una costitutivo-deduttiva.

Il processo dell’action-research promuove la conoscenza di un fenomeno a seguito del suo cambiamento, cioè il cambiamento di un fenomeno fornisce informazioni sul suo funzionamento. Il modo con cui la persona o il sistema o l’organizzazione risponderà al cambiamento introdotto ci svelerà il precedente funzionamento del fenomeno. Sono quindi le manovre stesse, le soluzioni stesse, che ci spiegano e ci validano o meno il fenomeno in esame e non le mie osservazioni conoscitive a priori. E questo vale anche per la pratica terapeutica. La metodologia del conoscere cambiando implica che una soluzione valida, ripetuta su un campione di soggetti aventi lo stesso problema, consenta di rilevare il funzionamento della problematica stessa e soprattutto ciò che la mantiene e la alimenta. Le conoscenze così acquisite in contesti sia clinici che sociali consentono di validare un protocollo di trattamento o di metterne a punto i relativi aggiustamenti, senza risentire di possibili minacce alla validità stessa di un qualcosa che, come precedentemente spiegato, si auto- convalida in virtù della sua stessa soluzione.

Continuare a voler ricondurre le proprie scoperte e le proprie manovre terapeutiche all’interno della propria teoria guida, significa rischiare di ingabbiarsi all’interno di un unico punto di vista, che può esser viziato da fenomeni non controllabili scientificamente. Arrogarsi il diritto di promuovere conoscenza scientifica, validando come scientifici dei dati prodotti da ricerche di laboratorio, che non hanno tenuto conto dell’influenza dell’osservatore sul fenomeno osservato e che non manifestano criteri di replicabilità in contesti sociali o di vita reale, esprime una forzatura ed un riduttivismo scientifico notevole. Con le parole di Hegel: “Se i fatti non coincidono con la teoria, tanto peggio per i fatti”.

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