La capacità di stare da soli e le competenze sociali

La capacità di stare da soli e le competenze sociali

Nell’immaginario collettivo la solitudine è paragonabile al peggior nemico da cui occorre difendersi  con qualsiasi arma. Non occorre pensare immediatamente ai casi più estremi. La solitudine circoscritta in un ambito dell’esistenza, come la vita di coppia, può bastare per etichettare una persona come emarginata.  A questo proposito esistono molti fattori relativi al macrosistema culturale e societario che potrebbero contribuire all’etichettamento negativo: la credenza che la felicità sia più facile da raggiungere quando si è in due o in molti, che le sfide si vincano insieme, che la coppia e le amicizie siano gli elementi imprescindibili per il raggiungimento dell’età adulta, sono tutti fattori che incentivano la visione stereotipica dello stare insieme come la conditio sine qua non per vivere bene.

È una tendenza abbastanza condivisa rappresentare la solitudine come una sfortuna. Tuttavia, la capacità di stare da soli è la condizione basilare per relazionarsi.

Come sostenevano Winnicott e Fromm, la capacità di stare da soli è il tassello di base per la costruzione dell’identità. S’impara a stare da soli grazie alle figure primarie che agevolano tale facoltà costruendo un buon equilibrio tra vicinanza e lontananza con il bambino. Secondo Bowlby madri evitanti o ambivalenti (evitanti e intrusive al tempo stesso) difficilmente aiuteranno il figlio a sviluppare la capacità di stare da solo: nel primo caso il piccolo inibirà i suoi sentimenti di bisogno, nel secondo li amplificherà. Nonostante siano due condizioni differenti, il risultato è l’incapacità di maturare la solitudine come un momento di esplorazione di sé e del mondo esterno.

Perché alcuni individui non sanno stare da soli?

Robin Norwood, nel suo libro “Donne che amano troppo” analizza l’incapacità di stare da soli nelle dinamiche della dipendenza affettiva femminile. Le donne che amano troppo, secondo l’autrice, sono incapaci di agire autonomamente e di godersi la solitudine perché non hanno sviluppato un rapporto adeguato con se stesse. In sostanza, non hanno maturato nell’arco dell’età evolutiva un sé capace di agire, esplorare e decidere autonomamente. Sono donne che dipendono dal partner, non riescono a staccarsi da una relazione malsana e saltano da un rapporto all’altro, per poi sentirsi insoddisfatte. Parlano spesso di se stesse in relazione ad un’altra persona e si sentono inefficaci quando non c’è nessuno a cui appoggiarsi.

Secondo la Norwood, queste donne passano da un rapporto all’altro per colmare la paura di rimanere sole e di doversela cavare con le proprie gambe. Questa condizione non è prototipica delle donne. Esistono uomini che si comportano nel medesimo modo, appunto perché la qualità delle relazioni di attaccamento gioca un ruolo importante.

La paura della solitudine

Fromm, a questo proposito, parla della solitudine come una condizione che suscita pura ansia nell’essere umano: non avere nessuno con cui condividere le gioie e le paure del mondo terrorizza e incentiva sentimenti di vergogna e di colpa. Per placare questa ansia comune a tutti gli esseri umani, alcuni soggetti commettono l’errore di attivare strategie inefficaci per evitare la solitudine.

La paura di subire l’esclusione dal gruppo e la disapprovazione, se non gestita adeguatamente, può sfociare in condotte lesive per l’autostima. Continuare a frequentare un gruppo di persone o un partner, che mancano di rispetto e di considerazione, giusto per uscire il weekend o per paura di essere etichettati come “sfigati” è un esempio ricorrente di incapacità di stare da soli.

Esistono anche fattori relativi all’età. I soggetti più a rischio sono gli adolescenti, perché i legami sociali, in quella fase, assumono un sinonimo di accettazione e di adultità. Isolarsi dal gruppo, seppur con ottime ragioni, sembrerebbe essere un gesto disapprovato in una fase dello sviluppo in cui più legami si coltivano al di fuori della famiglia, più si acquisiscono punti sulla visibilità.

Competenze sociali e rete sociale: l’empatia.

È abbastanza comune scambiare le competenze sociali con la visibilità sociale. Nel pensiero comune, gli individui più competenti socialmente sono anche gli stessi che intrattengono maggior rapporti sociali.

In realtà, per competenze sociali si intendono le capacità di relazionarsi con gli altri in senso più profondo, ovvero sperimentarne i vissuti, i pensieri, comprenderne i bisogni e contenerli. In tal senso, l’empatia o, per meglio dire, la condivisione empatica, è l’esempio più eclatante della competenza sociale.

Non sempre chi crede di avere numerosi amici è dotato di competenze sociali. Gli individui con un’organizzazione di personalità narcisista, ad esempio, possono avere numerose amicizie, essere visibili e apprezzati da una moltitudine di persone, ma sperimentare un basso, o addirittura nullo, livello di empatia. Possono faticare a mettersi nei panni degli altri, a comprendere i loro vissuti e a funzionare da contenitore affettivo. I loro rapporti si limitano alla banalità delle chiacchiere superficiali. Sentimenti, emozioni, problemi complessi sono argomenti che li annoiano terribilmente e che cercano di scartare o affrontano con banalità. Preferiscono le feste e le uscite di gruppo finalizzate al divertimento, ma non i rapporti intimi vis a vis.

Per contro, i soggetti con pochi rapporti sociali, intimi e duraturi, possiedono solitamente buone competenze sociali. Tra le loro competenze rientrano spesso un’autostima adeguata e un’alta auto-efficacia sociale che prevengono le situazioni di disagio connesse ai rapporti. In sostanza, sono individui che apprezzano la solitudine e la preferiscono quando l’immagine sociale e il benessere psicologico sono a repentaglio. Individui dotati delle risorse considerate abbandonano i legami disfunzionali e non si affannano a cercare l’approvazione e i rapporti con gli altri, appunto perché sono in grado di stare da soli. In sostanza, la solitudine non è vista come un nemico, ma come una soluzione possibile quando è ora di preservare se stessi dalle minacce reali, come le compagnie devianti o partner irrispettosi.

 

Bibliografia

  • Bowlby J., (1988), Una base sicura, Raffaello Cortina Editore.
  • Fromm E., (1956), L’arte di amare, Mondadori.
  • Norwood R., (1985), Donne che amano troppo, Feltrinelli.
  • Winnicott D., (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore.

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